Abruzzo Musica Antica

Antologia di musiche abruzzesi tra '400 e primo '600

Nuove partiture

07 07 2014
Che te desia il mio cor - Bernardino Scaramella
07 07 2014
Nuova fiamma d'amor - Bernardino Scaramella
07 07 2014
Tempo sereno età felice - Bernardino Scaramella

Salvo dove diversamente specificato, i file pubblicati su questo sito sono rilasciati con licenza Creative Commons.

licenza Creative Commons Attribuzione 2.5 Italia. Licenza Creative Commons

Musica in Abruzzo tra Ars nova e Barocco

di Marco Della Sciucca


Torna a Storia

Tre e Quattrocento -- Entrando nel Cinquecento -- Pieno e tardo Cinquecento -- Il Seicento

L’arco cronologico a cui mi riferirò in questo scritto sarà delimitato, nel suo inizio, dall’alba del cosiddetto ‘Rinascimento musicale’ (che si suole ricondurre, non senza polemiche, al periodo a cavallo tra Tre e Quattrocento), nella sua fine, al tramonto del xvii secolo (benché per ‘Barocco musicale’ si intenda normalmente anche parte del xviii secolo), per la semplice ragione che del Settecento ho già trattato in altro volume di questa stessa collana.


Eviterò di parlare di canto gregoriano e di repertorio popolare-religioso (laudistico e drammatico) in Abruzzo nel periodo che qui ci interessa, benché sia indubbio che queste due tradizioni attraversino i secoli come una sorta di fil rouge costante e sotterraneo: questa omissione, che potrebbe apparire anche grave, è dovuta al fatto che il repertorio gregoriano e quello laudistico e rappresentativo richiederebbero effettivamente delle trattazioni e, soprattutto, degli studi a parte, tanta è la mole di materiale da prendere in considerazione e ancora da studiare ex novo, almeno musicalmente.





Tre e Quattrocento


Il periodo tra i secoli xiv e xv, schematicamente definibile in musica come Ars nova, ci conduce subito, per l’Abruzzo, al nome di un personaggio centralissimo nella storia musicale italiana, quello di Zacara da Teramo. Nato a Teramo intorno alla metà del Trecento, fu segnato da una forte menomazione fisica, avendo sole dieci dita tra mani e piedi, come si può osservare anche in una miniatura con un suo ritratto conservata nel noto Codice Squarcialupi (Firenze, Biblioteca Medicea-Laurenziana, Pal.87). Zacara divenne uno dei musicisti più celebrati e ricchi del suo tempo e fu anche insegnante di musica, cantore, compositore e miniatore, prestando la sua opera a Roma per alcuni istituti cittadini, ma soprattutto per i pontefici Bonifacio ix (1389-1404), Innocenzo vii (1404-1406) e Gregorio xii (1406-1415). Probabilmente abbandonò Gregorio xii nel 1408 per seguire l’antipapa Giovanni xxiii, visto che nella cappella musicale di quest’ultimo troviamo, tra il 1412 e il 1413, il nome di “Magistro Antonio dicto zachara”, a Bologna.

Zacara ha sempre rappresentato, per la musicologia del Novecento, un nome molto importante, ma solo a partire dagli anni ’80 sono venuti alla luce fatti e testimonianze di tale rilievo da rendere necessaria una radicale riconsiderazione della sua personalità: sono comparse nuove fonti arsnovistiche testimonianti la grande diffusione della sua opera; sono state a lui attribuite molte composizioni prima ritenute anonime o dubbie o di altri; si è scoperto che il grande Ciconia, ritenuto per molti aspetti il modello di riferimento di Zacara, era in realtà ben più giovane di questi, mentre prima lo si credeva nato negli anni ’30 del Trecento. Ora la situazione appare ribaltata: il modello fu piuttosto Zacara, col suo linguaggio innovativo e sperimentale, e non solo per Ciconia, ma anche per altri compositori, alcuni dei quali di primissimo piano. Ancora nel 1463, quando era morto forse già da una cinquantina d’anni, le sue composizioni erano tenute per oracoli, e oggi, dopo lunga e ingiusta sottovalutazione, il nome di Zacara torna a risplendere con la luminosità che gli compete.


Ma qual era il terreno di fioritura di una personalità così fulgida come quella di Zacara? È difficile dirlo con precisione: possiamo però affidarci a qualche debole indizio. Per esempio, in Atri, a pochi chilometri da Teramo, troviamo, già qualche decennio prima, il nome di un tale Frater Nicolaus Cicci Tange, morto a Napoli il 13 febbraio 1370, di cui fa menzione il noto Necrologium Adriense pubblicato da Bindi. Nominato come «Magister Cappelle Reginalis», sembrerebbe proprio essere un musicista, dunque il maestro di cappella della regina Giovanna i d’Angiò, e contemporaneamente figura probabilmente invischiata in fosche vicende politiche di successione reale.


Il rinvio, partendo da Zacara, ad Atri, per mezzo di Nicolaus Cicci Tange, non è poi così casuale, perché proprio nel Museo Capitolare di Atri si conserva un frammento pergamenaceo contenente alcune parti del Gloria Micinella di Zacara. È un frammento molto importante, perché con esso Atri si unisce orgogliosamente ai non numerosi centri testimoni di quel rigoglioso periodo storico-musicale che fu l’Ars nova italiana e lo fa proprio con il nome di un grande artista locale.


Va anche detto che ad Atri, proprio nel periodo di Zacara, è testimoniato il nome di un altro musicista locale, anch’egli, come Cicci Tange, del tutto ignoto alla letteratura musicologica: il canonico della Cattedrale atriana Joannes Berardinus Jancanus, morto, secondo il Necrologium Adriense, il 3 luglio 1440. Egli fu «Canonicus et Primicerius» della Cattedrale di Atri, letterato di grande integrità morale, «qui etiam in musica cum sua suavi voce nimium pollebat». Non sappiamo se l’attività di musicista rappresentasse l’autentico momento di punta nella personalità di Jancanus, ma va rilevato il fatto che il Necrologium sottolinei le qualità musicali del defunto, quasi a rimarcare l’importanza della musica nella Cattedrale tra i canonici atriani.


Oltre ad Atri c’è anche Campli, ancor più vicina a Teramo di Atri. Quasi certamente fu la patria di Nicolaus Savini Mathei alias Ricci de Nucella Campli, almeno a giudicare dall’indicazione toponimica del soprannome e dal fatto che sappiamo abbia goduto di ingenti benefici ecclesiastici proprio nella diocesi di Teramo, oltre che in quelle di Gaeta e di Sora. L’attività di Nucella (o Nocella) è testimoniata tra il 1401 e il 1436: egli quasi certamente conobbe Zacara, visto che il suo nome è documentato tra quelli dei cantori delle cappelle degli stessi papi romani scismatici già visti col musicista teramano (Bonifacio ix, Innocenzo vii e Gregorio xii). Di lui ci rimane un’unica ballata alla francese a tre voci, nello stile dell’ Ars subtilior, dal titolo De bon parole tal pronto se fa: va peraltro detto che l’unico manoscritto che la tramandava è andato disperso, anche se possediamo ancora la trascrizione moderna.


Il secolo xv vede fiorire importanti nomi di musicisti anche fuori dal territorio teramano. Johannes de Quadris (o Quatris) fu un sacerdote-compositore proveniente dalla diocesi di Valva-Sulmona: la sua attività si svolse tuttavia, per quanto ne sappiamo, quasi interamente a Venezia tra il 1436 (come da un suo Magnificat «1436 mensis maij Venecijs») e il 1456. Noto soprattutto per le sue Lamentazioni (che furono in repertorio a S. Marco in Venezia per un buon secolo e mezzo, rimpiazzate solo agli inizi del 1600 da quelle di Giovanni Croce, pubblicate nel 1603 e nel 1610) e per altre composizioni sacre e profane assai diffuse e apprezzate, fu un personaggio cardine nel passaggio da uno stile polifonico tardo-gotico-settentrionale alla semplicità espressiva e melodiosa della musica italiana. Evidentemente il territorio peligno, per nutrire una personalità così importante come Johannes de Quadris, doveva essere ampiamente ricettivo per quanto riguarda la musica ‘colta’: una prova potrebbe essere letta nella testimonianza di alcuni fogli manoscritti studiati da Ziino e Tortoreto, conservati nella Biblioteca Comunale «Ovidio Nasone», che attestano interessanti frammenti di polifonia di stile fiammingo della seconda metà del Quattrocento e un inno a quattro voci, Iste confessor, che è probabilmente da datare tra fine Quattro e inizio Cinquecento.


Il Veneto rappresentò una terra d’approdo musicale importante per gli abruzzesi, se anche un teorico chietino quattrocentesco proprio in quella regione scrisse il suo celebre trattato De partitione licterarum monocordi, riguardante le divisioni del monocordo, gli intervalli, i modi ecclesiastici e diversi argomenti di canto gregoriano: parlo di Giacomo da Chieti o, latinamente, Jacobus Theatinus, un personaggio che, a parte l’opera che ci è pervenuta, ci rimane ancora oscuro sia per quanto riguarda i suoi tratti biografici, sia per eventuali sue altre opere teoriche o musicali.


Per quanto riguarda L’Aquila sono ancora da segnalare i nomi di un presunto musicista, Gianni Bacco (richiamato in una ballata di Andrea da Firenze con le parole «Fugite Gianni Bacco / da l’Aquila, furone»), quello del cantore e presbitero di S. Reparata in Firenze Paulus de Aquila, nel 1407, infine quelli dei due cantori della cappella pontificia nel 1400 Antonius de Aquila e Jacobus de Aquila. Anche il capoluogo abruzzese fu evidentemente un terreno di coltura particolarmente favorevole per i musicisti: tacerò quasi del tutto del caso eclatante di quel grande astro culturale che fu il poeta-musico Serafino Aquilano (per il quale rimando al saggio in questo stesso volume di Walter Tortoreto), anch’egli emigrato nei grandi centri culturali italiani, per ricordare invece quattro Amen di Credo contenuti nel Codice Agnifili della Biblioteca della Soprintendenza per i Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici per l’Abruzzo dell’Aquila, che, vergati a due voci, presentano uno stile polifonico retrospettivamente ‘arcaico’, detto cantus planus binatim, e in uso fino al tardo Quattrocento.


Non possiamo poi sottovalutare un altro polo che dovette essere particolarmente importante in Abruzzo durante il ’400, quello della città di Ortona: il manoscritto 431 della Biblioteca Comunale di Perugia, un codice di provenienza probabilmente francescana e vicino al repertorio internazionale della corte aragonese, contiene alcuni unica di un tale Fr. M. de Ortona e di Aedvardus de Ortona: di quest’ultimo disponiamo anche di una moderna edizione della Missa sine nomine. Due personaggi ortonesi all’interno di un manoscritto, benché solo in quello, rappresentano una presenza molto importante: data poi la fondamentale rappresentatività di quel codice perugino per il periodo alfonsino, va da sé il rilievo che assumono i due musicisti ortonesi nel panorama musicale quattrocentesco.


Fondamentali, infine, per una visione completa del Quattrocento musicale abruzzese, sono alcune testimonianze manoscritte quattrocentesche di polifonia, oltre a quelle già citate, rinvenute in territorio regionale. Sono contenute nel secondo e terzo volume di un Graduale in tre volumi presente fino a qualche anno fa nell’archivio della chiesa collegiata di S. Maria Maggiore di Guardiagrele, purtroppo recentemente rubato e quindi non più rintracciabile. In tali volumi sono presenti, oltre al consueto repertorio monodico gregoriano, alcuni brani liturgici a due e tre voci del primo Quattrocento con testi di Sanctus, Agnus Dei (l’unico Agnus presente risulta essere un contrafactum di una ballata di Francesco Landini, «Questa fanciulla, Amor, fallami pia»), Alleluja e Credo che appaiono «di preminente importanza, attesa la scarsa documentazione di brani polifonici italiani per l’Ordinarium Missae nel periodo al quale risalgono i frammenti abruzzesi». I brani polifonici di Guardiagrele, fortunatamente trascritti da Ziino, Cattin e Mischiati, attestano pratiche improvvisativo-popolari piuttosto diffuse sul repertorio liturgico e che, nel momento in cui venivano trascritte, subivano, da parte degli amanuensi, un processo di rimodellamento contrappuntistico in base alle proprie conoscenze teoriche e compositive.


Terminerò questo paragrafo sul Quattrocento polifonico abruzzese con un passo tratto da Agostino Ziino:

L’Abruzzo durante il Medioevo non deve essere considerato come un’area culturale isolata e conservativa, neanche in campo musicale. Difatti, a parte il caso davvero eccezionale di Zaccara da Teramo e indipendentemente dall’influsso che possono aver avuto nella circolazione e diffusione della musica i molti conventi benedettini presenti in Abruzzo (di cui tre intorno a Guardiagrele), non è da escludere che vi siano stati scambi e movimenti di cantori e musicisti specializzati tra l’Abruzzo e la cappella papale, o città come Firenze se non ancora più a Nord.


top


Entrando nel Cinquecento


Il passaggio al xvi secolo rappresenta un momento di vera illuminazione storico-musicale per l’Abruzzo. Per molti versi, nel trapasso dal Quattro al Cinquecento, ci sembra oggi di intravedere una sorta di rischiaramento documentale. La musicologia abruzzese sembra trovare per la prima volta solo nel Cinquecento un’ampia documentazione compositiva dei musicisti regionali e una vera e propria documentazione storica di vita musicale nelle diverse istituzioni. Abbiamo visto che anche i secoli precedenti attestarono una vita musicale di grande importanza, ma, a parte i pochi e molto spesso nebulosi nomi che ho citato (che non ci permettono di tessere una trama credibile di un vero e proprio sistema musicale territoriale), abbiamo a che fare prevalentemente con un repertorio di tipo anonimo che ancor oggi stenta a trovare accoglienza in una storiografia che predilige pur sempre il nome e il personaggio come oggetti di indagine. Dunque, per i secoli precedenti il xvi, il problema è soprattutto documentale, non di effettiva mancanza di un’attività di un certo rilievo; e il problema documentale non è solo nella carenza di fonti e documenti (cosa che certamente è più vera rispetto ai secoli seguenti), ma a volte nella scarsa attitudine degli studiosi – soprattutto di quelli locali – a ricercare in secoli ‘più difficili’ e a interrogare in un giusto senso musicologico quelle fonti.


Fatto sta che il Cinquecento, se posto in confronto con il secolo precedente, ci appare senz’altro più radioso e pieno di vita, direi anche di umanità e di passione.

Serafino Aquilano muore proprio nell’anno 1500. A dispetto della rinomanza europea di cui godé come poeta-musico, la sua personalità musicale ci appare ancor oggi in un fitto mistero, persa com’è nella caducità della pratica estemporanea, senza consegnarsi con certezza alla pagina scritta, se non per vie indirette e difficilmente ricostruibili.


In realtà, sarà proprio l’introduzione della stampa musicale a caratteri mobili, nel 1501 da parte di Ottaviano Petrucci da Fossombrone, a garantire nel Cinquecento una buona visibilità storica a musicisti attivi in grandi realtà culturali, come in centri più piccoli e periferici. Non sarà più necessario essere al servizio delle corti o istituzioni religiose più importanti ed esclusive per essere noti al ‘gran mondo’. La stampa diventa un eccellente mezzo di conoscenza, di propaganda e pubblicità anche per chi rimane in piccole realtà, un mezzo che riesce a sua volta a innescare un meccanismo di mercato con grandi conseguenze per la musica: i musicisti diventano veri e propri beni culturali, con un loro preciso valore qualitativo, economico e politico. A loro volta, le istituzioni (laiche e religiose), anche le più piccole, si mostrano estremamente attente a quei valori, registrandone con cura la presenza e l’attività: ne consegue appunto quella luce documentale tutta nuova, tipica del Cinquecento, che è tanto più importante quanto più ci si inoltra in regioni per alcuni aspetti periferiche, come l’Abruzzo. La stampa musicale – come avviene anche per altri generi a stampa – è già di per sé, inoltre, una possibilità documentale in senso storiografico ben più sicura di quanto garantisca la semplice tradizione manoscritta. Un’opera di cui vengono stampate diverse centinaia di copie avrà molte più probabilità di attraversare i secoli di quanto possa fare un manoscritto unico.


Non sarà allora solo un caso se un altro aquilano illustre, Marco dall’Aquila, che biograficamente varcherà la soglia del 1500 certamente fin oltre il 1538 (era nato intorno al 1480), riuscirà a imporsi storicamente con documenti ben più ‘parlanti’, cioè con la sua stessa musica stampata, oltre che con un fondamentale testimone manoscritto. La figura di Marco, unitamente a qualche altro importante musicista contemporaneo, è fondamentale nella svolta storico-musicale verso un repertorio autenticamente e originalmente strumentale, mediato ora molto più marcatamente dalla fisicità stessa dello strumento musicale, nel caso specifico il liuto, a dispetto di una tradizione che aveva visto fin lì la musica strumentale derivare essenzialmente dal repertorio vocale. Con Marco il liuto si affranca definitivamente dall’uso del plettro, per dar spazio alla ricchezza espressiva delle dita della mano, con la loro sensibilità e le loro raffinate capacità polifoniche.


L’Aquila è evidentemente in questo periodo un interessantissimo crogiuolo di iniziative mercantili e culturali: ma anche Marco, come Johannes de Quadris e Giacomo da Chieti, svolse in Veneto quasi tutta la sua attività, a Venezia in particolare, città che gli concesse, nel 1505, addirittura il privilegio di stampare intavolature per liuto in competizione con il famosissimo stampatore Ottaviano Petrucci. Così recita la richiesta di quel privilegio, con relativa concessione:


Serenissimi Principi ejusque Sapientissimo Consiglio.

Humiliter supplica et servitor de la Sublimità Vostra Marco da l’Aquila cum sit che cum grandissima sua fatica et spesa non mediocre se habii che se delectarono sonar de Lauto nobilissimo Instrumento pertinente a Vary Zentilhomini far stampar la tabullatura, et rasone de metter ogni Canto in lauto cum summa industria, et arte; et cum molto dispendio de tempo, et facultade sua: la qual opera non mai e sta stampata: Se degni la Illustrissima Signoria Vostra conieder de special gratia al prefato supplicante vostro fidelissimo: che alcun chi esser se vogli si in questa Cità de Venetia, come in tutte altre terre, et lochi nel Dominio de la Sublimità Vostra non ardisca, over prosama far stampar alcuna tabullatura de lauto de alcuna sorte, nec etiam se alcuno la stampasse extra ditionem Illustrissimi Domini Vestri, possi quella vender, over far vender in questa Cità ne altrove nel predicto Dominio, sotto pena, si a quelli, che la stampasseno in le terre de la Sublimità Vostra, come a quelli la conducesseno a vender in ipse terre de perder irrimissibiliter le loro opere et libri tabullati, et per cadauno de quelli stampati, over venduti pagar Ducati x. Il terzo de la qual pena sia del accusator, un terzo de quel rector, over Magistrato a chi sara facta la accusa, et l’altro terzo de epso supplicante aciò el possi cum tal gratia de Vostra Celsitudine continuar a vender le ditte opere et libri tabullati, et che alcun non li togli la industria et utilità che cum tanti sudori, et vigilie el prefato fidelissimo supplicante se ha acquistato, et questa prohibitione se intendi valer per anni x. come in similibus ad altri e sta concesso: ai piedi de la qual Sublimità Vostra humiliter se ricomanda.


Die 11. Martii 1505

Infrascripti Domini Consiliarii intelecta suprascripta suplicatione terminaverunt quod suprascripto suplicanti, fiat quod petit.

Consiliarii.

Ser Franciscus Barbadico.

Ser Nicolaus Foscareno.

Ser Marcus de Molino.

Ser Andreas Gritti.


Non sappiamo se quel privilegio ebbe un seguito, perché non ci sono giunte edizioni a nome di Marco dall’Aquila, ma certamente fu un riconoscimento importantissimo da parte della città di Venezia – capitale, ricordiamolo, dell’editoria internazionale – nei confronti di un personaggio a cui evidentemente si attribuivano già allora grandi meriti.


Anche Giovanni Armonio Marso dei Crociferi, così chiamato perché appartenente all’ordine ospedaliero dei Crociferi, ebbe i suoi fasti proprio a Venezia. Nato intorno al 1476 in un centro della Marsica (di qui «Marso»), sulle rive del lago Fucino, Armonio fu in primo luogo un dotto umanista, autore di saggi letterari, orazioni, tragedie, poesie e, soprattutto, di celebri commedie latine, sorta di contaminationes ispirate al mondo classico. Una di queste, Stephanium, dove egli stesso recitò, fu rappresentata a Venezia molto probabilmente nel 1499 nel convento degli Eremitani in Santo Stefano; Pirrotta sembra suggerire che fosse anche in parte musicata, citando dei versi del Sabellico, che, prendendo spunto proprio da questa commedia dell’Armonio per vantare la superiorità della vita veneziana, affermava:

[…] saltamus aptius: sonamus dulcius

lyra: monaulo: barbito psalterio […]



Armonio fu anche promotore a Venezia, insieme al mercante-attore-commediografo Antonio Molino, detto il Burchiella, di un’Accademia di musica e fu organista a S. Marco fino al 1552 con lauto stipendio.


Il territorio aquilano, compresa la Marsica, assisterà ancora al fiorire di musicisti più o meno importanti durante il Cinquecento pieno, ma volendo per ora rimanere al periodo della prima metà del secolo, è ad un altro angolo d’Abruzzo che dobbiamo rivolgere la nostra attenzione.


Mi riferisco in particolare ad Atri, capoluogo dello stato acquaviviano, città culturalmente e politicamente molto ricca e vivace. Come spesso accadeva nelle città sedi di signorie, i grandi poli culturali atriani furono essenzialmente due all’epoca: quello della corte dei duchi Acquaviva d’Aragona e quello ecclesiastico, in particolare della cattedrale.
All’interno del primo, primeggia, nel primo trentennio del secolo, la figura indiscussa dello stesso duca, Andrea Matteo iii. Egli fu sì un rinomato condottiero e stratega, ma fu anche grande mecenate delle arti e delle lettere e, cosa che qui ci interessa in particolare, autore di un importante e singolare trattato in latino di teoria musicale: il De musica di Andrea Matteo Acquaviva è infatti inserito, come un’ampia sezione a se stante e con ricche illustrazioni, nel suo vasto commentario, pubblicato nel 1526, al De virtute morali di Plutarco. Benché i temi trattati non siano che rivisitazioni di argomenti già presenti in Aristotele, Capella, Boezio, fino a Tinctoris e Gaffurio, il De musica acquaviviano ci appare singolare proprio per questa sua collocazione inusitata all’interno di un trattato filosofico più vasto; è altresì importante per il rango nobiliare dell’autore, da cui conseguiva una circolazione e una diffusione dell’opera in ambienti sicuramente complementari rispetto a quelli accademici consueti, come testimoniato dai numerosi imprestiti da esso nelle opere teoriche del napoletano Luigi Dentice e del marchigiano Stefano Vanni (Stephanus Vanneus).


Andrea Matteo volle che Antonio de Frizis, lo stampatore della sua opera, installasse la tipografia proprio nel suo stesso palazzo napoletano, dove furono stampate anche altre opere patrocinate dal duca d’Atri: possiamo dunque immaginare che, oltre al volume del 1526, anche un libro di mottetti segnalato come stampato dal de Frizis nel 1519 – uno dei primissimi libri di musica ad essere prodotti in tutto il Viceregno di Napoli, oggi purtroppo introvabile – fosse stato voluto e patrocinato dal duca d’Atri. Sempre nello stesso anno e nella stessa tipografia Andrea Matteo aveva fatto stampare un Officium a suo uso e consumo e, considerando alcune raccomandazioni liturgiche ai canonici atriani sempre nel 1519, tutto farebbe pensare ad una speciale liturgia tutta atriana e di volontà ducale che ci ricorda il più famoso caso analogo mantovano voluto da Guglielmo Gonzaga per la basilica palatina di S. Barbara.


Insomma, l’impresa tipografica del de Frizis, i cui legami con la città di Atri sono tutt’altro che improbabili, fu certamente molto importante non solo dal punto di vista letterario, ma anche da quello più strettamente musicale, come non secondaria fu l’azione di patrocinio musicale del duca e la sua stessa attività di trattatista. Con lui possiamo dire inizi in Atri una ben documentata attitudine al mecenatismo musicale da parte della famiglia ducale: già il figlio Giovan Antonio Donato, erede al titolo ducale, fu un buon suonatore di lira e improvvisatore, nonché patrocinatore, assieme al figlio primogenito, del nuovo grande organo dei fratelli Camillo e Vincenzo da Osimo inaugurato nel 1547 nella cattedrale di Atri.


Sembra che addirittura la basilica cattedrale di Atri fosse fornita di ben quattro organi sin nella prima metà del Cinquecento, affidati ad altrettanti maestri: tali Hieronymo, Luca e, pagati anche per la «schola de canto», i canonici Julio Fileon e Mariano Bevilacqua, quest’ultimo morto il 10 maggio 1549. Quella «schola de canto» fu evidentemente una sorta di cappella musicale che si costituì, o forse più semplicemente si ricostituì all’interno della cattedrale, nella prima metà del secolo, vedendo come primo maestro proprio il già citato organista e canonico Julio Quintio Fileon (morto il 4 dicembre 1560, dopo almeno un cinquantennio di attività in Atri), forse di origine fiamminga o spagnola, uno dei tanti che le cappelle musicali italiane a quel tempo si contendevano. Le voci e gli organi della cattedrale di Atri vennero in seguito ricordati, nel 1575, da Serafino Razzi come di grande qualità e perfezione.


In effetti, un gran numero di musicisti si alternarono in quella cattedrale nel corso del Cinquecento, alcuni anche molto importanti, ma prima di addentrarci nella fitta selva musicale abruzzese della seconda metà del secolo (perché i nomi che conosciamo saranno attivi soprattutto in quel periodo), varrà la pena ancora di dare qualche rapido sguardo alle cose della prima metà. Un accenno va sicuramente fatto ad Alfonso ii d’Avalos, marchese di Pescara e del Vasto.

Benché costantemente lontano dai suoi feudi abruzzesi, per le sue imprese militari, per il suo incarico di governatore di Milano e per altro ancora, non possiamo tuttavia completamente ignorarlo in un resoconto di taglio abruzzese. Egli fu infatti un mecenate importantissimo nella vita musicale italiana, patrocinando raccolte antologiche od opere di singoli compositori come Nicolas Gombert e Vincenzo Ruffo; fornì inoltre i versi per madrigali che ebbero una fortuna strepitosa all’epoca e che ancora oggi sono tra i più conosciuti del repertorio cinquecentesco: Anchor che col partire, per la musica di Cipriano de Rore, tanto famoso da essere oggetto di simpatiche parodie, e Il bianco e dolce cigno, musicato da Arcadelt. Alfonso, che era stato allievo per la musica addirittura di Costanzo Festa nel suo giovanile periodo di formazione nell’isola di Ischia presso la zia Costanza, ebbe al suo servizio a Milano anche il liutista-compositore milanese Pietro Paolo Borrono, ma non tanto in qualità di musicista, quanto in quella di agente diplomatico.



top


Pieno e tardo Cinquecento


La Città del Vasto ci dà lo spunto per entrare pienamente nel Cinquecento: benché divenisse solo sul finire del secolo residenza relativamente stabile di Casa d’Avalos, fu nondimeno un centro interessante e prolifico per quanto riguarda la musica già anche nella prima metà del secolo. Del resto, anche da un punto di vista più genericamente sociale, Vasto costituì una dinamica meta di approdo per Veneziani e Dalmati, che contribuirono non poco allo sviluppo dell’arte e della cultura tra le mura cittadine. Non è escluso che proprio qui, magari in un’ipotizzabile schola cantorum della chiesa madre di S. Maria Maggiore, il notissimo Lupacchino dal Vasto, il cui vero nome fu Bernardino Carnefresca, ricevesse la sua giovanile formazione musicale, prima di giungere a Roma, dove fu lungamente organista e maestro di cappella nella basilica di S. Giovanni in Laterano. A causa dell’incendio di Vasto da parte dei Turchi nel 1566 e del successivo saccheggio, nel 1590, da parte di Marco Sciarra con al seguito seicento banditi, con i quali andò distrutto un notevole patrimonio documentario, ogni ricostruzione di storia vastese precedente a quelle date risulta di grande difficoltà. Essendo Lupacchino morto intorno al 1555, ogni riferimento a eventuali sue attività in patria ci appare nebuloso, fatta eccezione di una sua sicura presenza a Vasto nel 1543.

Impossibile, poi, cercare relazioni certe con casa d’Avalos. Molto più documentata è la presenza in S. Giovanni in Laterano dal 1546 al 1553, nel cui archivio è ancora presente il noto Codice 25, contenente le messe di Lupacchino, oggi finalmente in una preziosa edizione moderna. Noto anche per due libri di madrigali a quattro voci e uno a cinque, stampati a Venezia tra il 1543 e il ’47, la fama di Lupacchino si legò nei secoli soprattutto al suo Primo libro a due voci, in collaborazione con Ioan Maria Tasso (Venezia, 1559), la cui prima edizione, ora perduta, deve ascriversi agli anni ’40, vista la menzione che ne fa il Doni nel 1550: tale volume ebbe un tale successo da essere ristampato un gran numero di volte fino almeno al 1701.


Anche altri componenti della famiglia d’Avalos, oltre ad Alfonso ii, furono patrocinatori, durante il Cinquecento di pubblicazioni musicali di varia importanza, anche se non sappiamo, data la scarsa presenza nella propria terra feudale della nobile famiglia, quale relazione con Vasto e l’Abruzzo potessero avere i compositori delle musiche, esclusi naturalmente quelli provatamente abruzzesi (Sabino, Crisci e Tristabocca). Per dare un’idea approssimativa del mecenatismo musicale dei d’Avalos, riporto una succinta tavola bibliografica con opere esplicitamente dedicate a membri della famiglia:


Giaches de Wert, Primo libro di madrigali a 4, Venezia, G. Scotto, 1561, dedicato a Ferrante Francesco d’Avalos, marchese di Pescara e del Vasto.


Tommaso Giglio, Primo libro di mottetti a 4, Venezia, Gardano, 1563, dedicato al cardinale Innico d’Avalos d’Aragona.


David Sacerdote, Primo libro di madrigali a 6, Venezia, Gardano, 1575, dedicato al marchese del Vasto (Alfonso Felice?).


Ippolito Sabino, Secondo libro di madrigali a 6, Venezia, A. Gardano, 1581, dedica di Oratio Crisci al cardinale Innico d’Avalos d’Aragona; vi sono contenuti quattro madrigali di Oratio Crisci.


Giovanni de Macque, Secondo libro di madrigali a 5, Venezia, G. Vincenti, 1587, dedicato a Cesare d’Avalos d’Ara­gona, Napoli 20 maggio 1587.


Pasquale Tristabocca, Primo libro di messe a 5, Venezia, G. Vincenti, 1590, dedicato al cardinale Innico d’Avalos d’Aragona, Venezia 1 agosto 1591 [sic].

Dattilo Roccia, Primo libro di madrigali a 5, ante 1600, dedicato al card. Innico d’Avalos d’Aragona.

Giuseppe Antonio Avitrano, Sonate a 3 op. 1, Napoli, M. L. Muzio, 1697, dedicate a Cesare Michel’Angiolo d’Avalos d’Aquino d’Aragona Carafa marchese di Pescara e del Vasto, Napoli 30 maggio 1697.


Benché alcuni compositori siano legati ai d’Avalos più per via mantovana che abruzzese, vista l’assidua presenza della famiglia nella città lombarda, tuttavia nell’elenco possiamo leggere almeno un nome certamente vastese, Oratio Crisci, e altri due abruzzesi, Ippolito Sabino, lancianese, e Pasquale Tristabocca, aquilano.


Rimandando a più avanti qualche cenno su Tristabocca, di Oratio Crisci, appartenente ad una notabile famiglia di aromatari vastesi e forse per qualche tempo organista a Mantova, dirò che non abbiamo notizie anagrafiche certe: sappiamo però che fu allievo (insieme allo zio Bernardino, pressoché coetaneo e autore di non meglio precisati «modulationum editi libri») di Ippolito Sabino che, sebbene di Lanciano, certamente risedette per qualche tempo a Vasto, come dalla dedica a Innico d’Avalos firmata da Oratio Crisci del citato libro di madrigali a sei del 1581 di Sabino:


L’Antica servitù, et devotione che sempre ho portato alla Illustriss. casa d’Avalos: sendo io di quella, et servitore, et vassallo […] dimorando nel Vasto M. Hippolito Sabino mio maestro, et musico per quello, che ne sentono gli altri professori di quella scienza Eccellente tra gli Eccellenti, mi diede l’originale d’una Sestina Spirituale da lui composta à giuditio di molti altri leggiadra, vaga, et devota, ho giudicato questa habbia ad esser il mezo, co’l quale io possa venire avante V.S. Illustriss. et Reverendiss. […] et d’alcuni altri Madrigali dell’istesso autore ve n’ho ascosi certi altri miei […] dunque vengo à dedicarli queste mie prime fatiche.


Crisci, che forse era ancora molto giovane, si presentava dunque al suo protettore avalosiano e al mondo facendosi scudo dell’opera del suo maestro, già conosciuto e grandemente apprezzato da qualche tempo nell’ambiente musicale. A dimostrazione dell’affetto e della stima che intercorreva tra i due sono gli ulteriori madrigali di Crisci che apparvero in volumi di Sabino nel 1587 e 1589 e il fatto che Crisci tenne a battesimo il penultimo dei dieci figli che Sabino ebbe dalla moglie Cornelia di Spetio e che, non a caso, portava il nome di Orazio. La presenza di Ippolito Sabino in territorio vastese era stata preceduta sicuramente da quella di Francesco Paolo Sabino, probabilmente un suo parente (il padre?), che il primo maggio 1551 stipulava un contratto per la costruzione di un organo per la chiesa di S. Maria di San Salvo, cittadina situata in tale territorio.


I nomi dei Sabino ci fanno risalire necessariamente un po’ più a nord lungo la costa adriatica, a Lanciano, che nel Cinquecento vive un periodo di grande sviluppo economico-politico, tanto da assumere il titolo di città e da vedersi riconosciuta l’elevazione a cattedrale della propria chiesa madre, con l’istituzione della diocesi. In particolare l’arte organaria appare assai fiorente, con maestri organari provenienti da Venezia sin dal 1542, i fratelli Andrea e Jacobo Vicentino. La stessa famiglia dei Sabino, a cui appartenevano, oltre ai già citati Francesco Paolo e Ippolito, anche Camillo (il più grande costruttore d’organi della città) e altri nomi di cui non sappiamo se fossero anch’essi organari o musicisti, era molto probabilmente di origine veneta, in conseguenza forse degli stretti rapporti della città di Lanciano più con Venezia che con Napoli. Tra l’altro, già nel 1537, è attestata nella chiesa di S. Maria Maggiore di Lanciano, l’attività di un’organista anch’egli di probabile origine veneta, Alessandro Grandevo.


Ma la fama musicale di Lanciano nel Cinquecento è dovuta soprattutto alla presenza di due importanti nomi. Il primo, in ordine di anzianità, è quello di Aurelio de Faya, musicista e sacerdote di origine francese venuto a Lanciano come maestro di cappella nel 1561, molto amato dai Lancianesi e dagli stessi Camillo e Ippolito Sabino, che gli fecero tenere i rispettivi primogeniti al fonte battesimale. Dopo un Primo libro de madrigali pubblicato ancora in vita, cinque anni dopo la morte, avvenuta il 20 agosto 1574, i discepoli lancianesi Giovanni Battista Bossi e Aurelio Pittore, fecero stampare, per i tipi di Angelo Gardano a Venezia, il secondo libro di madrigali a cinque voci, dedicandolo a Ferrante d’Alarçon y Mendoza marchese della Valle Siciliana (territorio di Tossicia, in provincia di Teramo).


Il secondo nome lancianese – davvero un grande nome – è il già citato Ippolito Sabino, notissimo madrigalista di cui ci sono noti, tra il 1566 e il 1619 (benché morto nel 1593 a Lanciano, dove era nato negli anni ’40) ben quattordici volumi di musica a stampa e pezzi singoli apparsi in una trentina di raccolte musicali italiane ed europee, testimonianza tangibile della popolarità di cui godette. All’inizio della sua carriera fu per così dire ‘sponsorizzato’ dal grande Cipriano de Rore, anche se dopo la morte di questi, visto che un paio di madrigali di Sabino compaiono nel Quinto libro di madrigali a cinque voci del compositore fiammingo naturalizzato italiano, pubblicato postumo nel 1566 e dedicato dall’editore Gardano a Ottavio Farnese e a sua moglie Margherita d’Austria, duchessa di Parma e Piacenza. Anche Ippolito fu maestro di cappella nella sua Lanciano, ma ebbe molti legami con diversi centri culturali italiani: tralasciando le dediche rivolte a personaggi abruzzesi, ricordo quella del Terzo libro de madrigali a cinque et a sei voci, che, essendo diretta a Francesco de’ Medici e alla sua consorte Bianca Capello, fa ipotizzare qualche contatto con la corte del granduca di Toscana. Tra l’altro, essendo quella dedica firmata da Venezia il 15 settembre 1582, comprendiamo che a quel tempo Sabino si trovava nella città lagunare (ma non possiamo escludere che fosse lì magari solo per correggere le bozze del proprio volume).

Nei suoi movimenti extra-lancianesi, la figura di Ippolito Sabino offre lo spunto per risalire la costa adriatica verso altre due città: Ortona e Atri.


Comincio con Ortona, che tra le due è la più vicina a Lanciano. Nel 1575 Sabino dedica il proprio libro Misse sex a Giovanni Agustino de Santis, canonico e vicario di Ortona. La dedica non ci fa capire con precisione se Ippolito fosse effettivamente al servizio della cattedrale di Ortona a quel tempo, ma il contenuto dei brani, per voci pari, sembra tagliato apposta per la chiesa ortonese, soprattutto per il mottetto conclusivo, Quia vidisti me Thoma credidisti, che ci rimanda direttamente al culto per S. Tommaso, patrono della città e titolare della cattedrale di Ortona. L’esistenza di una cappella musicale della cattedrale è testimoniata solo dal 1584, ma è ben probabile che esistesse già almeno da qualche anno prima.

Una specificità ortonese era che il maestro di cappella veniva eletto e stipendiato direttamente dal parlamento cittadino. Conosciamo però solo i nomi di un paio di maestri del tardo Cinquecento e di inizio Seicento, come Muzio Bruno di Fano, attivo dal 1593 al 1606, anno della sua morte, e il più famoso Adriano della Rota, attivo ad Ortona dal 1584 al 1593 e dal 1606 fino almeno al 1616. Di origine fiamminga, Adriano giunse a Ortona molto probabilmente al seguito di Margherita d’Austria che, acquistata la città nel 1582, vi faceva il suo solenne ingresso il 10 novembre 1583, proprio di ritorno da un viaggio nelle Fiandre. A quell’ingresso sembra riferito il madrigale di Adriano della Rota Al sacro e divin nome, contenuto nel suo Primo libro de madrigali a cinque voci, unica sua opera pervenutaci. Oltre che a Ortona, Adriano della Rota fu, nei primi anni del Seicento, maestro di cappella a Lanciano, a Sulmona, mentre precedentemente era stato ad Atri.


Della Rota si unisce dunque a Ippolito Sabino per condurci verso nord, all’altra città adriatica a cui accennavo sopra, Atri, dove facciamo ritorno dopo un lungo percorso. Vediamo in che modo.


Ippolito fu temporaneamente presente nella cappella della cattedrale di Atri negli anni 1567-68 e probabilmente nel 1579, mentre Camillo Sabino, già citato per la sua perizia organaria, vi prestò la sua opera a più riprese negli anni ’60, in alternanza con diversi altri organari: per esempio maestro Luca, maestro Eliseo Colo (o Lollo?), don Costanzo, Geronimo, Detio Villa. Di quest’ultimo si conserva ancora un contratto per la costruzione di un organo di 45 tasti, con sei registri, da collocare entro il 1598 nella chiesa di S. Giovanni Battista di Atri (oggi detta di S. Domenico).


Per quanto riguarda i musicisti, nella cappella atriana si attestano i nomi di don Laurentio (morto nel 1586 e presente negli anni ’50), mastro Gismondo (morto probabilmente nel 1575), il canonico Ioane Valerio Corbo (o Corvo, morto nel 1578 e presente sin dagli anni ’50), i vari e non meglio identificati musici napoletani e il «priore di Santo Stefano» (presente nel 1563), e altri nomi delle ultime due decadi del secolo: don Tarquino (attestato nel 1584), Giovan Battista Trullo (nel 1594) e, dal 1593 al 1594, finalmente Adriano della Rota, a cui seguirà, nel 1598, Feliciano Caporicci. Questi ultimi due furono i primi ad essere chiamati nei documenti ufficialmente col titolo di «maestro di cappella».


Ma torniamo a Ippolito Sabino, che ci introduce a quell’altro grande compositore abruzzese attivo nella seconda metà del secolo che risponde al nome di Cesare Tudino d’Atri. Stranamente, il legame tra i due sembra da ricondurre, oltre che propriamente ad Atri, anche a Roma, alla cappella di S. Giovanni in Laterano.

Oltre, come si è visto, a Lupacchino, infatti, anche Cesare Tudino, Ippolito Sabino e Camillo Sabino operarono come organisti e organari nella basilica romana, costituendo una sorta di importante ‘clan’ abruzzese. Tudino vi lavorò sicuramente come organista nel 1548, quando forse non era che appena diciottenne, e tale incarico ci conferma le eccezionali e precoci doti musicali del ragazzo. Cantore sin da giovanissimo in alcune istituzioni romane, è probabile che si fosse formato musicalmente proprio ad Atri, magari alla sopra citata «schola de musica» di Fileon e Bevilacqua. Fu canonico nella cattedrale di Atri dove operò per alterni periodi come musicista – e anche come procuratore del capitolo – dal 1552 al 1591.

Frequenti rimasero tuttavia i viaggi a Roma. Nel 1554 era stato forse alle dipendenze di Giovan Iacopo Trivulzi, marchese di Vigevano, al quale dedicò quell’anno Li madrigali a note bianche et negre cromatiche et napolitane a 4 (Venezia, Scotto), una pubblicazione di esordio dal taglio fortemente innovativo, sperimentale e originale, da fare di Tudino uno dei più rappresentativi compositori del Manierismo e dell’Avanguardia musicale cinquecentesca. Certamente fu alla corte atriana degli Acquaviva d’Aragona, dedicando al duca Giovan Girolamo Il primo libro dei madrigali a cinque voci, nel 1564 (con i madrigali spirituali che aprono il libro, Tudino si proponeva qui come uno dei fondatori del nuovo genere del madrigale spirituale, in conformità con lo spirito controriformistico), e al di lui figlio, duca Alberto, il primo libro delle Missæ Quinque Vocum, stampato da Vincenti a Venezia nel 1589. Di lui conserviamo ancora il Primo libro di mottetti a cinque (dedicato al cardinale Ottavio Acquaviva, fratello del duca d’Atri Alberto, successivamente arcivescovo di Napoli); il volume di Magnificat omnitonum a 4 e a 8 voci (dedicato al vescovo di Atri e Penne, Giovan Battista De Benedictis); infine, varie canzoni ‘alla napolitana’, comprese in antologie dell’epoca, e qualche madrigale in raccolte altrui. Morì molto probabilmente tra il settembre 1591 e la prima metà del gennaio 1592, dopo aver avuto qualche problema anche con il tribunale dell’Inquisizione di Napoli, non sappiamo ancora bene per quali motivi.

Fatto forse unico nella storia musicale rinascimentale, una lapide marmorea conservata nel Museo Capitolare di Atri riproduce un canone a quattro voci del musicista, dedicato a S. Cecilia (1577).


Sappiamo che il materiale musicale non mancava, se un inventario redatto nel 1630 dal maestro di cappella della cattedrale di Atri Ambrogio Mares elenca ben sessantatre libri di musica polifonica, tra stampe e manoscritti, soprattutto cinquecenteschi, di proprietà della cappella, con i seguenti musicisti rappresentati: Giovanni Pierluigi da Palestrina, Andrea Feliciani, Agostino Bendinelli (‘Zago delle Messe’), Giulio Belli, Giovanni Matteo Asola, Asprilio Pacelli, Francesco Soriano, Orfeo Vecchi, Giuliano Cartari, Giovanni Croce, Orazio Colombani, Annibale Stabile, Vincenzo Ruffo, Ruggero Giovannelli, Gian Domenico Del Giovane da Nola, Felice Anerio, Scipione Dentice, Agostino Agazzari, Annibale Stabile, Cesare Tudino, Lodovico Grossi da Viadana, Annibale Gregori, Tommaso Graziani, Adriano della Rota, Antonio Mortaro, Benedetto Re (Regio, Regius), Camillo Cortellini, Giovanni Giacomo Gastoldi, Bernardo Marchesi, Ignazio Donati, Nicolò Mezzogorri.


Ma quella della Cattedrale era solo una delle istituzioni musicali di Atri. A parte le altre chiese della città, c’era poi la corte ducale, l’altro grande polo culturale atriano: una corte stanziale, molto più di quanto fosse quella dei d’Avalos a Vasto. Abbiamo visto come lo stesso Tudino dedichi propri libri a membri della famiglia Acquaviva, primo fra tutti al duca Giovan Girolamo. Non sappiamo se fu anche musicista, come il padre Giovan Antonio Donato, ma ci è noto che fu, oltre che sensibile umanista e poeta, un grande cultore della musica, mecenate di musicisti importanti all’epoca, se gli dedicarono libri di madrigali, oltre a Tudino, anche Ippolito Sabino, nel 1579 (ulteriore prova del legame del musicista lancianese con Atri), e il fiammingo Rinaldo del Mel, nel 1585, quando questi era, sembra, di stanza proprio ad Atri presso il duca, frequentando anche altre città abruzzesi come Chieti (anni 1583-84) e L’Aquila (1586). La raccolta di del Mel è inoltre interessante perché contiene tre madrigali dedicati a Margherita d’Austria, signora anche dell’Aquila, oltre che di Ortona, e in ottimi rapporti con gli Acquaviva, presso la cui corte atriana sembra amasse soggiornare.


Sappiamo che Giovan Girolamo fu promotore di una corte vivacissima, che nel teatro palatino trovava il suo fulcro propulsore, un teatro dove certamente si faceva anche musica e dove trovarono linfa culturale e musicale gli stessi figli di Giovan Girolamo: il suo successore Alberto fu dedicatario di pubblicazioni musicali, oltre che del Tudino, ancora del Sabino (1570) e poi del fiammingo Philippe Rogier – figura davvero eminente, a quel tempo maestro di cappella della corte reale di Madrid – con il suo Primo libro di mottetti a 4-8 voci stampato nel 1595 da Stigliola a Napoli. Al cardinale Ottavio, altro figlio di Giovan Girolamo e arcivescovo di Napoli dal 1605, furono dedicati ben sei volumi di musica polifonica (di autori come Cesare Tudino, Ippolito Sabino, Domenico Montella e Scipione Dentice), e a padre Claudio Acquaviva, fratello di Giovan Girolamo, generale dei Gesuiti, che dovette avere buone attenzioni per la musica, dando un forte impulso alla diffusione di una particolare forma di madrigale, il madrigale spirituale: a lui fu dedicato infatti, nel 1581, il Primo libro de’ Madrigali spirituali a cinque voci di Filippo de Monte, una delle raccolte che hanno lasciato un’impronta decisiva nell’evoluzione del genere del madrigale spirituale.


Da Atri penetriamo nell’entroterra abruzzese. A Tossicia ci imbattiamo nuovamente, dopo la fugace citazione a proposito di Aurelio de Faya, nel nobile feudatario di origine spagnola, Ferrante d’Alarçon y Mendoza. Così ce ne parla Serafino Razzi nel resoconto del suo viaggio negli Abruzzi, nel 1575:



È questa Terra dell’Ill.mo Signor Marchese della Valle Siciliana, Don Ferrando Alarçone, figlio di quel gran capitano che si trovò alla presa del Re di Francia a Pavia; e gli fu dato detto Re in custodia. È questo Signore, come dicono, molto cortese e cattolico, e si diletta molto delle cose spirituali. Stanza per la maggior parte del tempo in Napoli. Et alcuna volta ancora, e massimamente la estate costuma di venirsene a questo suo Marchesato. Onde si tiene una bella libreria, di libri per lo più volgari, e signorilmente legati. E perché si diletta detto Signore della musica, di voci e di suoni, vedemmo in una sua stanza quasi di tutte le sorte instrumenti musicali. Vedemmo ancora la sua cappella cotanto bella et adorna quanto dir si possa, ripiena di cose sacre, con ricco altare et organo.


Purtroppo è difficile sapere se ci sia una qualche affinità tra questo «Ferrando Alarçone» e un tale «Ferdinandus Alarcon» attestato da Casimiri come organista per quasi tre mesi nel 1530 in S. Giovanni in Laterano. Per di più c’è chi ipotizza, su basi tuttavia incerte, che una tradizione musicale popolare tipica della Valle Siciliana, quella dei tamurrë di Preturo, sia da far risalire addirittura ai tempi dell’investitura regia a marchese dell’Alarçon da parte di Carlo v. Era comunque giocoforza che a un tal amante della musica venissero dedicate delle pubblicazioni musicali da parte di musicisti operanti in Abruzzo: dopo il de Faya, anche Francesco Orso da Celano dedicherà nel 1567 il suo Primo libro di madrigali a cinque al marchese d’Alarçon.


Orso nacque molto verosimilmente a Celano e morì probabilmente a Napoli dopo il 1581. Gli studiosi si sono concentrati su di lui soprattutto per i suoi madrigali cromatici (che sembrano richiamare quelli di Tudino del 1554), per le novità tecniche e mensurali e per le spiegazioni che fornisce, nella lettera al lettore del suo libro, sul modo di codificare per iscritto le alterazioni. Pubblicò quasi certamente anche un volume di madrigali a sei voci. La biografia presenta ancora molti aspetti oscuri e complessi, senz’altro da indagare meglio, compreso il coinvolgimento in un processo dell’Inquisizione.


Orso fu anche un rinomato autore di villanelle alla napolitana (ne compaiono sette sue nelle due raccolte dal titolo Canzon napolitane a tre di L’Arpa, Cesare Todino, Joan Dominico da Nola, compilate da Nicolò Roiccerandet Borgognone), facendo buona compagnia all’atriano Cesare Tudino, che fu uno dei più famosi autori di napolitane (tanto che il suo nome compare sin nel titolo della raccolta citata).

In effetti la tradizione delle napolitane si radicò piuttosto profondamente in territorio abruzzese: lo stesso Ippolito Sabino pubblicò alcuni madrigali alla napolitana a quattro, cinque e sei voci nel già citato Terzo libro di madrigali a cinque et a sei voci; Francesco Mazzoni, compositore abruzzese (come veniamo a sapere dai frontespizi delle sue pubblicazioni) di cui ci è noto solo che fu cantore e sacerdote presso la cattedrale di Treviso tra il 1569 ca. e il 1576, pubblicò due libri di napolitane a tre voci, includendo nel primo anche una napolitana di Tudino, che per la sua notorietà faceva evidentemente da garante alla qualità della raccolta. Un tal Marco Antonio Mazzone di Miglionico, inoltre, ripubblicò in una sua raccolta di Canzoni del 1571 le napolitane a tre voci dei maggiori compositori del tempo: tra le altre, ve ne troviamo ben sei di Tudino e due di Orso.


A Sulmona il principe Carlo de Lannoy sembra essere un altro buon protettore della musica, se a lui è dedicato il Primo libro di madrigali a cinque voci, del 1564, di Francesco Menta, compositore italiano di origine fiamminga, che aveva studiato e che operava per lo più a Napoli. Anche il calabrese Gasparo Fiorino dedica il suo famoso La nobiltà di Roma del 1571 a Horatio della Noiia (Orazio de Lannoy), principe di Sulmona: due ottave, poi, sono dedicate alla «Illustrissima Signora Donna Beatrice della Noiia», che altri non era che la sorella di Orazio e duchessa di Atri, moglie di Alberto Acquaviva. In realtà, non sappiamo se questo mecenatismo dei Lannoy fosse legato propriamente a Sulmona o se non fosse piuttosto da ricondurre all’ambiente partenopeo al quale più propriamente i principi di Sulmona appartenevano culturalmente e politicamente. Più certamente legato alla zona peligna fu Bernardino Scaramella, di Palena, centro montano non troppo distante da Sulmona. Il suo Primo libro di madrigali a cinque voci, del 1591, è dedicato a un altro feudatario abruzzese, Realto de Sterlich (e alla sua consorte Dorotea Rosale), e contiene alla fine un madrigale spirituale di Cesare Tudino – ulteriore prova della fama di cui l’atriano godeva e del riconoscimento che forse lo Scaramella gli doveva.


Procediamo un po’ alla volta per fare rientro a L’Aquila: per quanto riguarda Celano abbiamo già visto la figura importante di Francesco Orso, la cui attività è per ora attestata soprattutto a Napoli. Val la pena di ricordare qui un altro nome, quello di Giacomo Celano, autore almeno di un brano in una raccolta del 1592, il cui toponimo ci rimanda presumibilmente appunto alla città marsicana. Ma è a Rocca di Mezzo che ci aspetta un incontro particolarmente interessante. Il piccolo centro sull’altipiano delle Rocche sembra godesse di una favorevole condizione socio-economica nel Cinquecento (legata molto probabilmente all’origine rocchigiana del potente cardinale Amico Agnifili), tanto da esprimere prodotti artistici di rilevante pregio ancor oggi conservati nel museo annesso alla chiesa parrocchiale di S. Maria della Neve. Qui ci interessa porre l’accento su un antifonario mariano compiuto nel 1519, ma successivamente integrato con numerose testimonianze manoscritte cinquecentesche di musica polifonica di vago gusto francese. Tra queste aggiunte troviamo il già altrove noto mottetto di Josquin des Prés Tu solus qui facis mirabilia e altri brani di carattere sacro altrimenti ignoti di compositori anonimi o sconosciuti come Laurensius Gaspard (a cui viene dato un rilievo da autentica autorità) e Johannes de Oleo. Tra i brani sacri compare anche una villanella alla napolitana a tre voci, Se me voi morto, che Ziino, su suggerimento di Cardamone, attribuisce ipoteticamente a Tudino. Ziino, per sottolineare l’importanza musicale del luogo nella seconda metà del secolo, aggiunge anche che a S. Maria della Neve fu eretto un organo nel 1594, a opera di don Stefano Fabri, mentre abbiamo nel 1604 almeno il nome di un organista, Filippo Franitti.


Da Rocca di Mezzo finalmente di nuovo a L’Aquila, che seppe esprimere, durante il Cinquecento, altri musicisti importanti, anche se probabilmente non della rinomanza di Marco dall’Aquila o di Serafino de’ Cimminelli. Benché non vi fosse, se non per la sporadica presenza, come si è visto, di Margarita d’Austria, una corte nobiliare di alto rango, in città era tuttavia presente un forte patriziato e importanti istituzioni ecclesiastiche che riuscivano comunque a garantire un’attività musicale di un certo rilievo.


Abbiamo già visto come il famoso del Mel fosse presente a L’Aquila, a Chieti e ad Atri. Non proprio dall’Aquila, ma da un paese molto vicino, Montereale, proveniva Serafino Candido, che fu noto negli anni ’70 del Cinquecento per aver pubblicato vivaci e deliziose mascherate che sembrano per molti versi anticipare la commedia madrigalesca di fine secolo. Anche Candido, come i precedenti grandi nomi aquilani citati, è un personaggio destinato a lasciare le patrie terre per approdare in una città lontana come Augusta: nonostante firmi poi la dedica da Venezia, è ad un giovane nobiluomo di Augusta che viene infatti dedicato il suo volume Delle mascherate musicali, del 1571, che contiene anche alcuni brani scritti per il primo ingresso trionfale di Margherita d’Austria a L’Aquila.


Pasquale Tristabocca, che fiorì invece almeno un decennio più tardi, fu proprio un aquilano: anch’egli si dedicò molto al genere leggero, nello stile della canzonetta, molto in voga in quegli anni a Firenze. Il suo secondo libro di madrigali a cinque voci, del 1586, è infatti dedicato a Bianca Capello, granduchessa di Toscana e include un brano in tre parti, Cantai un tempo, su versi di Giovanni de’ Bardi, conte di Vernio: altro profondo legame con l’ambiente fiorentino.


Ma se è vero che L’Aquila esporta musicisti, vero è anche che ritroviamo musicisti stranieri al servizio di istituzioni aquilane. Fabio Costantini, compositore e cantore di origine marchigiana, iniziò la propria carriera sul finire del secolo al servizio del vescovo dell’Aquila, prima dei suoi importanti incarichi a Roma, Tivoli, Orvieto, Loreto, Ferrara e Ancona.


E prima di Costantini troviamo in servizio a L’Aquila nel 1573 i fratelli Giovanni e Jacobus Flori, appartenenti a una nota famiglia di musicisti olandesi, la cui attività si svolse in molti importanti centri europei; e poi ancora Joanne Verius (van Vere), compositore fiammingo al seguito di Margherita d’Austria a L’Aquila tra il 1583 e il 1586, citato anche da Pietro Cerone per essergli stato di grande aiuto nella stesura del suo famoso trattato El melopeo y maestro.


Infine un cenno all’attività tipografica a Napoli dell’aquilano Gioseffo Cacchio, figura fondamentale nell’introduzione dell’intavolatura per cembalo in Italia, soprattutto con la pubblicazione nel 1576 dell’Intavolatura de cimbalo. Recercate, fantasie et canzoni franzese del musicista cieco Antonio Valente, a cui l’estensore della lettera al lettore contenuta nel volume riconosce di aver inventato un nuovo sistema di intavolatura (in realtà ripreso dal Bermudo).


top


Il Seicento


Il xvi secolo presenta diversi problemi per la ricerca storico-musicologica in Abruzzo: infatti, come non notare la pressoché totale assenza di citazioni per città importanti come Chieti, Penne, Avezzano? Si tratta di lacune determinate soprattutto dalla mancanza di studi specifici, di studi musicologici di carattere locale. Passando al Seicento, poi, tali problemi si acuiscono ulteriormente, e probabilmente non è estraneo ad essi il calo improvviso di pubblicazioni musicali di autori abruzzesi o operanti in Abruzzo proprio a partire dall’inizio del secolo xvii. Ciò non significa che le attività musicali scemassero: anzi, non è escluso che accadesse esattamente il contrario, ma essendo in genere proprio le pubblicazioni, più che i documenti d’archivio o i manoscritti, il volano primo della ricerca, non apparirà allora troppo strano il minor spazio che riserverò al Seicento rispetto al Cinquecento.


In Italia, nel passaggio di secolo, a dispetto di un luogo comune che vi vuole riconoscere un momento di aspra frattura, in realtà continuità e innovazione vivono dal punto di vista musicale un rapporto di grande equilibrio. L’Abruzzo sembra un po’ in controtendenza rispetto a questa continuità proprio per il citato calo di pubblicazioni musicali.

È una regione che, pur essendo compresa nel Viceregno di Napoli, continua a preferire l’editoria veneziana (internazionale per eccellenza) a quella napoletana e di questa non segue pertanto la grande e clamorosa ascesa quantitativa del primo trentennio del Seicento. Al contrario, sebbene si preferiranno mete forse più congeniali, come ad esempio Roma, i musicisti sembrano ora forse un po’ più attratti dalla sfera di influenza partenopea. Ho già accennato al mecenatismo del cardinale atriano Ottavio Acquaviva d’Aragona, vescovo di Napoli, che raccoglie intorno a sé agli inizi del Seicento musicisti del calibro di Macque, Scipione Dentice e Montella, tutti però di ambito napoletano (all’epoca della protezione degli abruzzesi Sabino e Tudino, l’Aquaviva non era ancora a Napoli).


Proprio a Napoli ci porterà uno degli elementi di continuità tra Cinque e Seicento in Abruzzo, quello rappresentato dalla già citata famiglia di musicisti dei Sabino. È infatti tutt’altro che improbabile un legame tra il ramo lancianese, cinquecentesco, e quello seicentesco, proveniente da Turi, nelle Puglie, che tanta parte avrà nella cultura musicale napoletana del Seicento, con i nomi di Donato Antonio, Francesco junior e, soprattutto, Giovan Maria.


È invece a Roma che arriviamo con i Tudino: dal libro della procuratoria del 1629 del Capitolo della Cattedrale di Atri, Esito dei provvisionanti (c. 12r), abbiamo notizia di un maestro di cappella di nome Giovanni Antonio Todino. Quasi certamente è lo stesso Giovanni Antonio Todini autore di due canzonette strofiche, Vedi l’alba o bella Clori e Se perch’io viva in pianti e mi consumi, che aprono il volume Vezzosetti fiori di varii eccellenti autori, Roma, Robletti, 1622, antologia ascrivibile al gruppo dei musicisti che gravitavano attorno al cardinal Montalto.

La posizione delle due canzonette in apertura del volume (pp. 3-4) potrebbe essere indicativa di una maggior notorietà del Todini rispetto agli altri autori. Non possiamo non pensare ad un rapporto di parentela e – perché no? – di discepolato con il più noto Cesare Tudino (detto anche Todini). Allo stesso modo è ben possibile che il noto drammaturgo atriano Pietro Paolo Todini, divenuto cittadino romano, sia anch’egli parente di entrambi: sembra anche naturale ipotizzare che qualcuna delle sue opere teatrali potesse essere stata rivestita di musica.


Del resto non mancavano ad Atri esempi di rapporto teatro-musica nella prima metà del Seicento: il drammaturgo atriano Francesco Gasbarrino pubblica nel 1627 la commedia L’Atriana incognita amante, dedicata al duca d’Atri Francesco Acquaviva d’Aragona. Ebbene, tra i cinque atti sono inseriti quattro intermedi e, come scritto testualmente nella pubblicazione, «tutti quattro si possono recitare in Musica».


Alla famiglia Acquaviva dei duchi d’Atri è legata una lunga tradizione teatrale e musicale, anche fuori di Atri: Pier Luigi Ciapparelli, sulla base di avvisi di giornali napoletani studiati da Confuorto, ci dice che delle commedie, forse con musica, vengono recitate a Napoli in occasione del matrimonio del duca d’Atri Giovan Geronimo con Lavinia Ludovisio, nel 1682, nella residenza napoletana del duca. Aggiungerei che probabilmente furono due i lavori rappresentati: l’uno potrebbe essere L’Ulisse in Feacia (dramma adespoto – attribuito, senza molto fondamento, all’Acciaiuoli – musicato dal cavaliere napoletano Antonio Del Gaudio), che fu ripreso a Napoli l’anno dopo la prima veneziana, nel gennaio 1682, proprio «in casa del duca d’Atri»; l’altro, un dramma di Pedro Caldéron de la Barca, il cui libretto, ancor oggi conservato nella Biblioteca Casanatense di Roma, così recita nel frontespizio:


La gran Comedia Zelos aun del ayre Matan, de don Pedro Calderon de la Barca. Fiesta que se represento a Sus Magestades en el Coliseo del Buen Retiro. Y repetida en Napoles … En la ocasion del despossorio de la … Senora mi Senora D. Lauinia Ludouisio, con el … Senor Duque de Atri , &c.


Sappiamo che Celos aún del aire matan (La gelosia, persino quella dell’aria, uccide), uno dei primissimi esperimenti di opera in musica in lingua spagnola, era stato musicato nel 1660 dall’arpista e compositore della corte reale di Madrid Juan Hidalgo, in occasione delle feste per il matrimonio dell’infanta di Spagna Maria Teresa d’Asburgo con Luigi xiv di Francia. La ripresa napoletana dovette rappresentare certamente un evento mondano di grande richiamo in Italia.


I duchi d’Atri avevano spesso parte importante nelle grandi feste napoletane in musica a palazzo reale, se già nei giornali di Francesco Zazzera del 1617 si legge:



Giovedì li 10. di Agosto [1617] fu il giorno di san Lorenzo e fu cappella in Palazzo, […] La sera si fé la festa in Palazzo di 12 dame fatte dalla signora Viceregina in honor di san Lorenzo, […] hor queste signore uscirono a due a due facendo l’entrata con le torcie in mano, […] e così uscirono ballando con la musica innanzi, finché ferono riverenza a S.E., e poi si sederono di qua e di là, e poi uscirono di nuovo ad un ballo che durò un quarto d’hora, e poi si cominciò un ballo ordinario, del quale fu maestro il duca d’Atri, dopo s’inviò ad una gagliarda che durò un pezzo; […] e finalmente si fé il ballo della torcia […].


Del 1624 è un libretto de Il parto della Vergine rappresentatione spirituale. Di Marc’Antonio Perillo napoletano l’Ingelosito academico Incauto dedicata al R.P.F. Donato eremita dell’ordine di Predic.ri : è una delle primissime rappresentazioni spirituali a Napoli con musica e, prima di allora, era già stata «fatta rappresentare una volta avanti all’Ecc.mo Duca d’Atri di buona memoria, e ultimamente avanti all’Ecc.mo Sig. D. Tiberio Carafa prencipe di Bisignano e di Scilla…».

Vi si trovano indicazioni certe di presenza musicale, come:


Il «Choro d’Amori» canta, suona e danza; «Nota, che ’l principio della scena settima dell’Atto secondo ha’ da cominciare co’l madrigale, che canta il Choro d’Amori, il quale è nel fine di detta scena cantato.


Il duca d’Atri a cui si fa riferimento doveva essere stato Giosia ii, morto nel 1620, mentre il testo del libretto si rifaceva al noto De partu Virginis di Jacopo Sannazaro, la cui prima edizione era stata patrocinata all’incirca un secolo prima, nel 1524, da un altro duca d’Atri, il già citato Andrea Matteo iii, per i tipi del de Frizis, a Napoli.


Sono testimonianze che ci attestano soprattutto l’impulso che gli Acquaviva d’Atri diedero alla vita musicale partenopea, ma non è detto che quella stessa dinamica culturale non si ripetesse – o anticipasse – proprio nella patria degli Acquaviva, in Atri, dove comunque la famiglia risiedeva con buona frequenza e dove aveva il suo teatro palatino.


E a proposito del mecenatismo in terra d’Abruzzo degli Acquaviva, ricordo che Ambrosio Cremonese, un compositore nativo probabilmente di Cremona, ma maestro di cappella a Ortona, almeno nel 1636, dedicò il suo Primo libro di madrigali, op. 1 all’abate Ottavio Acquaviva, esprimendosi con queste parole:



[…] dal tempo ch’io la conobbi, ritrovandomi alla servitù dell’Eccellenza del Sig. Duca d’Atri suo fratello… questi rustici fiori, et immaturi frutti del mio debole ingegno […]



Infine, ancora per quanto riguarda gli Acquaviva, vanno citate almeno ancora due testimonianze: la prima è una serenata, Riposa o’ bella hor ch’il ceruleo manto, musicata da Carlo Farina (1600 ca.-1640 ca.), «Serenata, le cui parole son dell’Ecc.mo S. Duca d’Atri, e la Musica del s.r Farina», conservata manoscritta in due esemplari. La seconda, ultima sparuta testimonianza musicale acquaviviana che riesco a citare, è del 1687, quando, in occasione delle nozze di Dorotea Acquaviva d’Aragona, sorella del duca d’Atri, con Giulio ii Acquaviva d’Aragona, conte di Conversano, si preparano grandi festeggiamenti con la rappresentazione anche della Berenice regina degli Argivi, di Isidoro Calisto, con musiche di Gaetano Veneziano e con la partecipazione di «diversi musici forestieri e particolarmente la cantatrice Fiasconi».

Considerando che in genere, nei matrimoni nobiliari, erano le spose con le loro famiglie a organizzare gli apparati musicali delle feste (era consuetudine che le donne portassero con sé ‘in dote’ i musicisti), possiamo dedurre con qualche probabilità che almeno parte di musici e cantanti provenissero dall’ enturage musicale della famiglia atriana.


Del resto, anche la cappella musicale della cattedrale di Atri continuò ad essere molto attiva durante il Seicento. Nel 1627, dovendosi nominare il nuovo maestro, si pensò al nome altisonante di Romano Micheli (già alla cappella di S. Luigi dei Francesi in Roma), ma non sappiamo con quali esiti.


Nel 1629 l’ex-maestro di cappella Adriano della Rota, pieno di riconoscenza per gli antichi servigi, indirizzava per ben due volte, da Ortona, al capitolo atriano proprie opere musicali accompagnate da accoratissime dediche manoscritte: nella prima di esse, in particolare, l’autore ci informa che l’opera era stata «composta conforme la seconda pratica». Questi documenti risultano di estremo interesse, da una parte perché possiamo posticipare almeno di un quinquennio la data di morte ipotizzata di della Rota, dall’altra perché sappiamo di opere non altrimenti testimoniate altrove e per di più dichiaratamente scritte nello stile della «seconda pratica».


Abbiamo già visto la cospicua dotazione libraria attestata ad Atri dal maestro di cappella Ambrogio Mares nel 1630. Da una lettera del luglio del 1643 veniamo a sapere che Mares è in quel periodo maestro di cappella e organista della cattedrale di Lanciano.


Negli anni 1664-1668 si verificò un’acre battaglia legale, con ampi echi anche a Roma, tra il capitolo atriano e il vescovo Esuperanzio Raffaelli, che, facendo leva su dettami conciliari e sinodali, imponeva a tutti i canonici, a pena di sensibili riduzioni dei benefici, di partecipare alle funzioni liturgiche col canto gregoriano, laddove invece era generalmente solo una parte dei canonici ad avere incombenze di tipo musicale. La questione si risolse, sembra, solo con la morte del Raffaelli, avvenuta nel 1668.


Almeno un accenno va ancora fatto all’altra grande famiglia feudale abruzzese, quella dei d’Avalos, anch’essi evidentemente al centro dell’attenzione nell’organizzazione musicale della capitale, Napoli. La sparuta testimonianza che riporto, dagli Avvisi della città di Napoli in data 3 gennaio-26 dicembre 1696, riguarda il marchese di Pescara Cesare:



[…] Nella sera di Giovedì 29 del caduto [dicembre 1695] dal Sig. D. Cesare d’Avalos Marchese di Pescara nel Palazzo de’ Principi della Roccella, ov’egli soggiorna, venuto qui con nobil Corte de’ suoi Stati, fecesi cantare da sceltissime voci, e strumenti, un’Oratorio sagro, intitolato il martirio di S. Cesareo, composto dal suo Segretario Sig. Francesco Milliati, e dal di lui Maestro di Cappella Sig. Nicolò Filomena posto in musica, ove intervennero gli Eminentissimi Sig. Cardinali nostro Arcivescovo Cantelmi, d’Aguirre, e Carafa Zio del medesimo sig. Marchese, gl’illustrissimi Monsignor Vidania Cappellano Maggiore del Regno, et il Vescovo dell’Aquila con principali titolati, e Cavalieri; e per il dolce stile del componimento, e per la soavità della musica, e per l’armonia delle voci, e per la melodia degli strumenti, e per la copiosità di preziosi rinfreschi di tutte le sorti, e per ogni parte di essa disposta alla grande, rimase ciascuno degli uditori pienamente sodisfatto, riuscendo la funzione decorosa, e plausibilissima. […]


Per tornare nuovamente in confini abruzzesi, sappiamo che anche nella rappresentazione che venne fatta a Montereale del Finto pazzo (1603) di Cristoforo Sicinio di Tossicia, nel palazzo di Giovan Paolo Ricci, furono aggiunti, a richiesta di quest’ultimo e a spese degli Accademici Indefessi, quattro intermezzi e un prologo, chissà se musicali.


Conosciamo poi l’attività melodrammatica piuttosto sviluppata a L’Aquila già nel corso del Seicento. Il 27 febbraio del 1658, per festeggiare la nascita di Filippo Prospero di Spagna da Filippo iv e Anna d’Austria, viene allestito nella badia di Collemaggio un melodramma di Giuseppe Ardinghelli (l’autore della musica ci è ignoto) che tanta impressione destò nel pubblico per la «bizzarra novità della scena» e per la «dolcissima melodia». Sempre nello stesso anno si ha testimonianza di un concerto («una soavissima sinfonia di varij Istrumenti») il 1° marzo e, il giorno seguente, di un altro spettacolo melodrammatico sotto la guida di Carlo Antonelli: si tratta ancora una volta di un melodramma dedicato al fausto evento spagnolo, molto spettacolare con i suoi numerosi cambi di scena, prospettive illusionistiche e uso di macchine di volo; anche la musica fu molto apprezzata e il risultato del tutto fu un grandissimo successo di pubblico.


A poco più di una decina d’anni dopo, al 1669, risale un’altra testimonianza fondamentale, la raccolta Melpomene sacra: Drammi musicali di Don Teodoro Vangelista, dedicati alla Ill.ma Sig. D. Aurelia Carafa Caraccioli Marchesa di Barisciano, della cui musica si è persa ogni traccia. Vi erano raccolti otto libretti di melodrammi del canonico e accademico dei Velati aquilano Teodoro Vangelista, musicati dal sacerdote Giovannantonio Capece, di cui, nell’avviso dell’opera si riconosce la grande maestria nel contrappunto e al contempo la delicatezza manierata. Giovannantonio era figlio del più famoso Alessandro, che troviamo in varie città, a Ferrara, Rieti, Napoli, Tivoli e, per qualche tempo, dopo il 1617, in servizio anche nella cattedrale di Sulmona. Tortoreto ci dice che, prima di farsi prete, Giovannantonio aveva avuto un figlio, anch’egli di nome Alessandro, destinato a diventare maestro di cappella nella cattedrale dell’Aquila.


Sembra che alla città dell’Aquila siano inoltre riferite due opere del compositore siciliano Vincenzo Amato, zio di Alessandro Scarlatti, Isaura del 1664 e Aquila del 1666, ma si tratta di questione alquanto dubbia. Solo un cenno per l’ascendenza aquilana del famoso compositore romano Lelio Colista, il cui padre Pietro, ufficiale della Biblioteca Vaticana e «riformatore» dell’Università di Roma, era appunto un aquilano.


L’Aquila ci appare come una città molto votata al melodramma: dopo tutto le rappresentazioni drammatiche dovevano essere molto apprezzate se già nel 1616 fu costruito un teatro in città, ricavato dalla parte dove erano «i caldai da mosto» dell’ospedale di S. Salvatore. Il teatro, completamente gestito dal pubblico e con lo stemma della città, fu migliorato nel 1643 da Pompeo Colonna, principe di Gallicano (vi interpretò anche la parte di Mirtillo nel Pastor fido di Guarini) e decorato da Francesco Bedeschini nel 1673. Ma non doveva certo mancare chi si interessasse alla musica madrigalistica, se ancora si conserva, presso il fondo Dragonetti dell’Archivio di Stato dell’Aquila, una serie di volumi, tutti di madrigali, degli inizi del Seicento, con autori come Fontanelli, Stella, Kapsberger, Monteverdi, Rossi, Montella, D’India, Pecci e da Gagliano.


Anche a Sulmona l’attività musicale dovette essere di grande importanza, almeno a giudicare dal maestoso organo costruito nel 1602 nella chiesa dell’Annunziata dal famoso organaro perugino Luca Blasi (o Biagi), parzialmente distrutto dal terremoto del 1706. Quell’organo sembra fosse della stessa importanza del celebre strumento costruito sempre dal Blasi in S. Giovanni in Laterano a Roma, detto Clementino perché voluto da Clemente viii per le celebrazioni giubilari del 1600. Non sarà dunque casuale la presenza a Sulmona, come si è accennato, di un musicista importante come Alessandro Capece. Non va poi dimenticato il mecenatismo musicale del principe di Sulmona, Marcantonio Borghese (nipote di papa Paolo v), che da giovanissimo ebbe come insegnante privato di musica, tra il 1613 e il 1621, il compositore e organista siciliano Ottavio Catalani: alla corte di Marcantonio – che dobbiamo tuttavia credere quasi esclusivamente romana – fu per sedici anni, a partire dal 1620, il noto compositore pugliese Luigi Rossi.


Il Seicento fu un secolo di intensa attività musicale sicuramente a Chieti. Purtroppo mancano studi di carattere locale che ci diano almeno qualche indicazione, puranche approssimativa, sulle istituzioni. Tuttavia veniamo a conoscere per altre vie della presenza in città di un buon numero di compositori italiani anche piuttosto importanti: il primo è il pavese Ludovico Torti (o Torto) che, nato ben dentro il xvi secolo, nel 1547, spese tuttavia gli anni della sua vita matura, dal 1607, come maestro del coro nella chiesa metropolitana di Chieti, dove ebbe anche diversi allievi. Il suo libro di messe ed inni op. 3 del 1607 è dedicato da Chieti a personaggi molto probabilmente teatini: Ales­sandro Grinia, Flaminio Riccio, Giustino Andriano e Donato Antonio Mi­tiano.


Ortensio Polidori, compositore marchigiano, nato a Camerino, fu anch’egli a Chieti dal 1639 al 1646, per poi trasferirsi probabilmente a Palermo. Votato soprattutto alla produzione sacra, dedicò a Stefano Sauli, arcivescovo e conte di Chieti, il suo libro di salmi a otto voci op. 16 del 1646.


A Chieti ebbero inoltre i natali due compositori di certo rilievo: il primo è Giacomo Fornaci, monaco benedettino di cui si hanno solo scarne notizie tra gli anni ’10 e gli anni ’20, conosciuto almeno come autore del volume Amorosi respiri musicali, a 1-3 voci e continuo, stampato a Venezia nel 1617; il secondo, più tardo, è Gaetano de Stefanis, di cui si hanno informazioni biografiche esclusivamente dai frontespizi delle sue opere. Fu attivo, tra fine Seicento e inizio Settecento, a Spalato, Bologna, Ferrara e nella cattedrale di Forlì.


Non troppo lontano da Chieti troviamo altri tre compositori di natali abruzzesi: a Spoltore nasce Alessandro Aglione, compositore appartenente all’ordine dei Predicatori e attivo con certezza tra il 1599 e il 1621, la cui musica, a parte otto mottetti, risulta perduta o ci è pervenuta incompleta. Ci sono poi altri due musicisti che per buona parte saranno attivi nel xviii secolo: Pietro Marchitelli e Gennaro Ursino. Marchitelli, detto anche Petrillo, fu violinista e compositore nato a Villa S. Maria forse intorno al 1643 e morto a Napoli il 6 febbraio 1729. Proveniente dal conservatorio di S. Maria di Loreto in Napoli, la sua arte violinistica fu paragonata da Burney a quella del celebre Arcangelo Corelli. Per oltre cinquant’anni violinista principale della cappella reale a Napoli, divenne ricco e potente. Tra i suoi allievi i due nipoti, anch’essi abruzzesi, Michele Mascitti, di Villa S. Maria, e Giovanni Sebastiano Sabatino, nato a Chieti nel 1667 e violinista nella cappella reale di Napoli, padre a sua volta del più noto Nicola.


Gennaro Ursino nacque invece nel 1650 a Roio del Sangro, entrando a dodici anni al conservatorio napoletano della Pietà dei Turchini sotto la guida di Giovanni Salvatore e divenendo a quindici anni assistente del direttore di quel conservatorio, il ben noto Francesco Provenzale, al quale succedeva nel 1701, dopo aver ricoperto altri importanti incarichi nelle istituzioni musicali della capitale. Ricordato per tre lavori drammatici oggi introvabili (la commedia Pandora, del 1690; lo scherzo drammatico Il trionfo della croce nella vittoria di Costantino, del 1690; la favola armonica Iratus in coelus impetus, del 1697), Ursino fu autore anche di spettacolari mottetti policorali.


Come per Chieti, anche per una città storicamente importante come Penne non si hanno studi musicologici specifici, ma la vitalità musicale del centro vestino è testimoniata dal caso del compositore romano Pietro Paolo Sabatini, che fu ingaggiato dai cittadini di Penne nel 1650 per provvedere all’organizzazione musicale della processione a S. Pietro nell’anno santo 1650, o dalla presenza, durante il Seicento, di ben due soprani (forse dei castrati) della Cappella Pontificia provenienti da Penne: Francesco Lancioni, assunto il 29 giugno 1627 e morto il 1° ottobre 1675, e Giuseppe Vecchi, assunto il 19 settembre 1663 e morto l’11 settembre 1707.


Concludo con delle note su due importanti musicisti abruzzesi del Seicento – forse i più importanti – entrambi di nascita marsicana, ma entrambi allontanatisi prestissimo dalla terra natia: Giuseppe Corsi da Celano e Bonifacio Graziani.


Il primo a scrivere del celanese Giuseppe Corsi fu, già nel 1712, Pietro Antonio Corsignani nel suo De viris illustribus marsorum liber singularis cui etiam sanctorum ac venerabilium vitae necnon marsicanae inscriptiones accesserunt. Allievo tra i più dotati di Carissimi, il migliore secondo Ottavio Pitoni, fu maestro di cappella a Roma in S. Maria Maggiore, S. Giovanni in Laterano, S. Apollinare e S. Maria in Vallicella, per poi essere ad Assisi, Loreto, Napoli, ancora Roma, Narni e Modena, dove morirà non prima del 1690, dopo essere divenuto sacerdote in età piuttosto avanzata.


Il famoso sacerdote e compositore Bonifacio Graziani (Gratiani), a dispetto di una tradizione biografica che lo voleva nativo di Marino, vicino Roma, era nato invece a Rocca di Botte, al confine abruzzese con il Lazio nel 1604-1605, per trasferirsi ancora bambino a Marino, dove sarà compagno di giochi di Carissimi. Dopo la sua prima attività di musicista a Marino e a Frascati, sarà col trasferimento a Roma, sotto la protezione del cardinal Colonna, che il nome di Gratiani comincerà a rimbalzare di istituzione in istituzione, divenendo uno dei più richiesti e prolifici (si conoscono ben 25 sue opere stampate) compositori di musica sacra.


Come si è visto, la storia musicale abruzzese nel Seicento è fatta per lo più di semplici e sparuti tasselli di un mosaico di cui siamo ancora lontani dal ricostruire pur anche le sole linee essenziali. Mentre il Cinquecento ha visto l’interessamento di una musicologia locale, seppur di recente formazione e numericamente esigua, che ci ha permesso per lo meno di farci un’idea approssimativa di un sistema musicale nelle sue relazioni all’interno dei confini regionali e all’esterno, il Seicento manca ancora quasi del tutto di ricerca e di riflessione.

I tasselli di cui ho detto, che comunque ci appaiono sin da subito importanti e carichi di interesse, provengono in genere semplicemente da grandi opere di repertorio o enciclopediche, che sono ovviamente solo un punto di partenza tra tanti per ricerche di qualche valore storico. Va detto, tuttavia, che qualcosa si preannuncia già per l’immediato futuro e forse, tra qualche anno, quel mosaico potrà cominciare a mostrare almeno le tracce essenziali di disegni che si riveleranno certamente complessi, ricchi e degni di adeguata attenzione.



top